Governare il futuro

Facebook contro l’Australia. I nodi del web vengono al pettine ma non possiamo stupirci

La notizia della settimana per chi si occupa di web e dintorni è arrivata ieri.

Facebook, in Australia, ha bloccato la condivisione dei link ai contenuti informativi pubblicati dagli editori.

E’ la risposta del socialnetwork a un disegno di legge che contiene regole non troppo diverse da quelle approvate di recente anche in Europa secondo le quali i social network, quando usano o fanno usare, anche se semplicemente attraverso link e snippet, i contenuti degli editori devono pagare a questi ultimi una percentuale dei loro profitti.

Il Primo Ministro australiano, da ieri, parla a tutti i media nazionali e internazionali di intimidazione brutale e ribadisce che il suo Governo non si lascerà intimidire dal gigante dei social network e in giro per il mondo, in tanti, si mostrano stupiti per l’accaduto.

In realtà non è la prima volta che accade ed è già successo anche in Europa.

“Siamo dispiaciuti di doverti informare che Google News ha chiuso in Spagna e che, in seguito ai recenti cambi nella legislazione spagnola, le pubblicazioni degli editori spagnoli non compaiono più in ‘Google noticias'”.

Chi ha memoria delle cose della rete, probabilmente, ricorda che il 16 dicembre 2014 Google ha accolto così gli utenti spagnoli che provavano a usare l’aggregatore di notizie di MountainView.

E ieri in Spagna come oggi in Australia la pietra dello scandalo è sempre la stessa: i giganti del web, quelli che la nuova proposta di disciplina europea della materia definisce gatekeeper e che sin qui abbiamo chiamato intermediari della comunicazione non ci stanno a far passare il principio per il quale condividere link e estratti di articoli di giornali significhi utilizzare i contenuti degli editori e può, quindi, significare che loro debbano pagare qualcosa a questi ultimi.

Questione spinosa e complicata.

Una risposta corretta non c’è ma, comunque, non è questo il punto centrale della vicenda che vede ora contrapposto il Governo australiano a Facebook.

Il punto, infatti, questa volta più che il merito è il metodo.

Perché ciò che non va giù al Primo Ministro australiano e che fa storcere la bocca a molti osservatori è che Facebook, di fatto, vada al muro contro muro contro il Governo quasi si trattasse di una ritorsione commerciale tra Stati sovrani nell’ambito di un negoziato condotto dalla diplomazia internazionale.

E, però, forse è un po’ tardi per mostrarsi sorpresi e persino per attendersi reazioni diverse da queste.

In fondo anche gli industriali di un tempo minacciavano i Governi che proponevano riforme normative non gradite con l’annuncio di voler delocalizzare la produzione di questo o quel prodotto altrove così da sottrarre al Paese gettito fiscale e posti di lavoro e molti, anche da noi, questo genere di minacce le hanno anche attuate.

Ciò che ora cambia per davvero è la magnitudine di certe reazioni e, soprattutto, la circostanza che la reazione di Facebook e l’embargo che ha appena adottato riguarda un elemento vitale per ogni democrazia: l’informazione.

E, probabilmente, anche il fatto che, a differenza dell’industria di ieri che minacciava la delocalizzazione della produzione e, forse, persino, dell’analoga iniziativa di Google di poco più di un lustro fa, oggi Facebook ma non solo Facebook, è sempre  meno simile a un’industria qualsiasi per quanto importante e sempre più simile al fornitore di un servizio pubblico essenziale con la conseguenza che il suo blocco rassomiglia più alla chiusura di un acquedotto che lascia a secco milioni di cittadini che alla serrata di una pur importante industria nazionale.

Il problema, insomma, esiste certamente ma onestamente non credo ci si possa, nel 2021, né sorprendere, né scandalizzare per la reazione muscolare della società se non, forse, per il fatto – se è andata come pare – per la repentinità della decisione e certamente per aver lasciato che nel blocco finissero anche pagine e servizi estranei alla questione della quale si discute.

Ma dobbiamo – e di corsa – correre ai ripari e cercare soluzioni non tanto nella dimensione di mercato, né al problema specifico dell’informazione online ma alla sostenibilità delle nostre democrazie in una stagione nella quale un mercato che non funziona finisce automaticamente con il corrompere la società molto di più di quanto accadeva ieri, in dimensioni altre rispetto a quella economica come quella culturale, quella informativa, quella democratica.