Pornhub (e gli altri), miliardi accumulati grazie alla violenza sulle donne

E’ tutta da leggere la drammatica ma preziosissima inchiesta dal titolo “Le ragazze di Pornhub”di Nicholas Kristof, pubblicata nei giorni scorsi dal New York Times.

Perché il Canada [ndr il Paese dove ha sede la società che lo gestisce pure fiscalmente basata in Lussemburgo] permette a questa società di sfruttare economicamente video pubblicati senza il consenso delle loro protagoniste?” Si chiede l’autore nell’occhiello del suo pezzo.

Pornhub è uno dei 10 siti più visitati al mondo con 3.5 miliardi di visitatori al mese per circa 3 miliardi di banner pubblicitari visualizzati ogni giorno.

Il sito monetizza ovvero trasforma in denaro grazie alla pubblicità i video a contenuto pornografico pubblicati dagli utenti tra i quali – ed è il cuore dell’inchiesta del New York Times – video di ragazzine e donne pubblicati senza il loro consenso e video di autentici stupri.

Questi video sono catalogati, taggati – come si dice in gergo – indicizzati e contraddistinti con espressioni che ne fanno specifico oggetto di ricerca.

L’inchiesta mette in fila una serie di racconti drammatici di ragazzine e ex ragazzine la cui vita è stata letteralmente distrutta dalla pubblicazione su Pornhub di uno o più video a sfondo sessuale pubblicati a loro insaputa e contro il loro consenso.

In molti casi all’origine delle storie c’è la scelta consapevole di lasciarsi riprendere da un fidanzato, un compagno, un marito in un momento di intimità o di inviargli un video a contenuto erotico nell’ambito di un gioco di coppia, seguita dalla decisione di quest’ultimo, poco conta per quale ragione – vendetta, esibizionismo, machismo, perversioni di ogni genere – di condividere quel video con il mondo, all’insaputa della protagonista e senza il suo consenso.

Storie drammaticamente simili a quella della maestra di Torino, rimbalzata nelle scorse settimane sulla stampa, che a causa di un video di questo genere finito su Whatsapp, ha perso il lavoro e si è ritrovata con una vita da ricostruire o quella della dottoressa di Brescia intervistata oggi per Il Fatto Quotidiano da Selvaggia Luccarelli.

Un gesto di violenza inaudita quello di chi pubblica un video a sfondo sessuale destinato a rimanere privato in assenza del consenso della protagonista, una violenza sessuale grave quanto quella fisica e, anzi, forse, come raccontano bene le storie messe in fila dal New York Times, talvolta persino più grave, almeno nelle conseguenze, in ragione della pervasività della diffusione del video e del rischio – che è spesso certezza – che quel contenuto sarà di dominio pubblico per sempre.

Storie di mamme, in alcuni casi, quelle raccontate dal New York Times, costrette a convivere con l’ansia che i propri figli, divenuti adolescenti, si imbattano su PornHub in un video che non avrebbe mai dovuto lasciare lo smartphone con il quale era stato girato.

Come è possibile permettere che qualcuno accumuli ricchezze straordinarie – tanto per intenderci Pornhub ha più visitatori di Netflix, Yahoo o Amazon – consentendo a chicchessia di violentare, sebbene nella dimensione digitale, ragazzine e donne?

E come è possibile lasciarglielo fare senza che ciascuno di noi, ciascuno nel suo ruolo, faccia la sua parte per impedire che accada?

Il problema, naturalmente, non ha niente a che vedere con la pornografia online, né con la libertà di chiunque di decidere di pubblicare online un proprio video mentre fa sesso.

Il problema è la condivisione di video a sfondo sessuale in assenza del consenso di tutti i protagonisti, più spesso, purtroppo, della protagonista femminile.

La pubblicazione dell’inchiesta del New York Time, in una manciata di giorni, ha già prodotto alcuni primi risultati apprezzabili: Mastercard ha annunciato che bloccherà i trasferimenti di denaro verso la società che gestisce PornHub e la stessa PornHub ha annunciato una serie di irrigidimenti delle proprie policy allo scopo di impedire il caricamento online da parte di utenti la cui identità non sia stata verificata e di vietare il download dei contenuti per limitarne la circolazione.

Ma, naturalmente, non basta.

E naturalmente non c’è solo Pornhub perché le piattaforme analoghe sono tante ma tante davvero: forme di sfruttamento digitale organizzato di violenza sessuale e di violazione, spesso palese, del consenso di una donna circa la circolazione di un contenuto video a sfondo sessuale.

Si può e si deve fare di più senza voltarsi dall’altra parte perché l’argomento è pruriginoso o perché è più facile parlare di altri mali del web o perché, purtroppo, denunciare questo genere di violenze, per le vittime, è difficile almeno quanto denunciare di aver subito una violenza sessuale e perché, purtroppo, quando una di queste violenze viene alla luce, troppo spesso, la società – o, almeno, una sua parte rilevante – anziché fare quadrato attorno alla vittima, la condanna una seconda volta, proprio come accaduto nel caso della maestra di Torino, quasi che aver scelto di fare sesso con il proprio compagno davanti a uno smartphone significhi essersela cercata.

Serve una risposta forte, comune, determinata che responsabilizzi senza esitazioni i gestori delle piattaforme che consentono la condivisione di questo genere di contenuti e che non fanno abbastanza per acquisire la certezza che la pubblicazione di ogni singolo video sia il risultato di una scelta libera e consapevole di tutti i protagonisti.

Non basta, non può bastare dichiararsi disponibili a rimuovere un video, su segnalazione di una vittima, dopo che il video è stato caricato perché in una piattaforma con tre miliardi e mezzo di visitatori al mese, un contenuto, in una manciata di ore, diventa male comune dell’umanità per l’eternità.

E le leggi, già oggi, imporrebbero a chi sfrutta commercialmente quel contenuto facendoselo licenziare dagli utenti che lo caricano di verificare di essere in possesso del consenso di tutti i protagonisti.

Questa battaglia si può e si deve vincere. La combattiamo tutti insieme? Idee e suggerimenti sono i benvenuti qui sotto o in privato. Già parlarne, probabilmente, è importante perché magari aiuta le vittime a sentirsi meno sole e alcune iniziative importanti già ci sono come quella di Permesso Negato.

(Pubblicato su L’Avvocato del diavolo, L’Espresso)

Revenge porn, la colpa è anche nostra

Un uomo e una donna stanno insieme, fanno sesso, decidono di riprendersi con uno smartphone.
A loro, in quel momento, piace così.
È un momento di intimità, di complicità, di gioco.
È un momento loro destinato a rimanere loro.
“E qualche volta fai pensieri strani – Con una mano, una mano ti sfiori – Tu sola dentro la stanza – E tutto il mondo fuori”, come canta Vasco Rossi in Albachiara.
Poi qualcosa si rompe.
I due si lasciano e lui decide di condividere quelle immagini con i compagni di calcetto.
Inutile perdere tempo a indagare le ragioni all’origine del gesto.
Sarà stato stupido machismo, sarà stato esibizionismo, sarà stato compiacimento per la propria prestazione sessuale o, magari, per aver ottenuto dalla propria donna una perfomance sessuale davanti a una telecamera.
Non importa.
Ciò che conta è che con quella condivisione lui rompe l’intimità di quell’istante, rende pubblico ciò che era nato per restare privato e, così facendo violenta lei, proprio come avrebbe fatto se l’avesse costretta con la violenza a fare sesso davanti a quella telecamera.
Nessuna attenuante dettata dalla immaterialità del gesto, nessuna giustificazione, nessuna scusa.
Non più, nel 2020, neppure, la sottovalutazione delle conseguenze di quella condivisione.
E’ un gesto mostruoso, disumano, animale analogo a quello di chi usa la violenza fisica per sopraffare una donna a scopo sessuale.
Ma poi accade qualcosa di ancora più mostruoso, ancora più preoccupante, ancora più atroce.
Una donna, questa volta, vede il video sullo smartphone del marito, riconosce nella protagonista femminile la maestra di suo figlio e decide di condividerlo con le mamme dei compagni di scuola di quest’ultimo.
E così, di smartphone in smartphone, il video in questione arriva fino alla direttrice della scuola dove la vittima della violenza lavora.
Ed è a questo punto che la vicenda, questa vicenda, quella che da settimane rimbalza come la storia della “maestra di Torino” – con un’etichetta che minaccia di renderla impersonale, asettica, quasi da rotocalco di gossip – si tinge di tinte ancora più fosche, drammaticamente paradossali.
Perché la scuola, la direttrice, le mamme che fino a un istante prima di guardare quel video – o semplicemente di sentirne parlare – avevano affidato alla vittima di questo stupro digitale i loro figli con serenità e soddisfazione, anziché stringersi attorno a lei in un abbraccio forte, solidale, femminile come c’è da augurarsi avrebbero fatto incontrandola per strada, con i vestiti strappati e i segni di una violenza sulla pelle e sul viso, celebrano un processo morale in suo danno, la condannano, la costringono alle dimissioni perché indegna di prendersi cura dei loro figli.
Il diritto – Statuto dei lavoratori e Codice privacy in testa – suggerisce che la scuola ha fatto carne da macello dei diritti più elementari della maestra perché mai e poi mai avrebbe dovuto processarla per un episodio completamente estraneo alla sua attività lavorativa e men che meno condannarla, nella sostanza, sulla base di convinzioni di tipo morale.
Ma questo è uno di quei casi in cui arrivare a scomodare le regole del diritto significa dichiararsi sconfitti.
Possibile che la nostra società, quella che sta combattendo da mesi una guerra per la sopravvivenza contro la pandemia, quella che progetta un futuro nel quale gli uomini potranno viaggiare da turisti nello spazio, quella che discute dell’etica della robotica e dell’intelligenza artificiale sia così tanto gravemente malata da non saper distinguere la vittima dal carnefice e da non sapere tirare una linea di confine tra ciò che è privato, personale e intimo e ciò che è pubblico?
Possibile che nel 2020 la direttrice di una scuola e delle mamme possano celebrare un processo contro una donna violentata digitalmente dal suo ex solo perché ha scelto di farci sesso davanti a uno smartphone?
Il revenge porn – e, più in generale, ogni forma di violenza digitale a base sessuale – naturalmente è una piaga della società contro la quale combattere senza risparmiarsi neppure un istante ma se miete così tante vittime, in fondo, la colpa è anche un po’ nostra perché se noi imparassimo a non giudicare il prossimo per come vive la propria sessualità a casa propria, nella propria macchina, in una stanza di hotel o in ufficio forse, l’impatto del fenomeno risulterebbe attenuato, smorzato, finalmente, governabile.